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La Madre che divenne polvere

10 marzo 2005


Dal Libro di Nelson Mandela:

“LE MIE FIABE AFRICANE”  (Donzelli Editore)

Tanto tempo fa il sole aveva una figlia. Al pari del padre, era una stella di grande splendore, e viveva nel fulgore ancora maggiore del sole. Le sue scarpe erano fatte di fuochi d’artificio luccicanti, e sulle dita, attorno alle caviglie, ai polsi e al collo portava scintille raccolte da stelle cadenti. Essa risplendeva lucente e illuminava quel vuoto al di là del sole conosciuto come cielo. Regnava su di esso e governava con grande saggezza, amore e sensibilità.

Un giorno, mentre faceva i suoi giri di ispezione tra gli infiniti pianeti dell’universo immenso, ne  scorse uno in un angolo remoto. Era lontano, quasi oltre la portata del sole. I suoi colori erano tutte le sfumature del verde e del blu. Lo guardò di nuovo e poi parlò. «Laggiù, su quel pianeta – disse la stella al sole –, è lì che voglio il mio trono. Voglio trascorrere la mia vita nell’intensità del verde e nella freschezza del blu».

Il sole sospirò. Guardò la grande lucentezza della stella e sospirò di nuovo. I suoi occhi riuscivano a leggere di molti anni nel futuro. «E’ tutto tuo – disse – Puoi andare ovunque vuoi. Puoi fare tutto ciò che vuoi. Ma sappi questo: dovrai spogliarti di gran parte dei tuoi poteri e lasciarli qui. La veste brillante di luce pura, le scarpe di fuochi d’artificio, le cavigliere, i bracciali e le collane col luccichio delle stelle della sera e del mattino – non potrai portare con te niente di tutto ciò. Il verde delicato del pianeta non riuscirebbe mai a sopportare il calore del tuo splendore, e il blu si inaridirebbe completamente. Tuttavia, in cambio dei tuoi ornamenti lucenti, potrai esprimere tre desideri che ti saranno concessi incondizionatamente». «Molto bene – disse – Lasciami pensare.»

Pensò e ripensò per anni e anni. Perché è così che fanno le stelle e il sole nell’universo immenso. Ogni cosa ci impiega anni e anni per accadere, anche se a loro sembra invece un battito di ciglia. Alla fine, dopo averci pensato abbastanza, prese la sua decisione. Accettò di lasciare la veste, la cappa di chiarori dell’alba, le scarpe di fuochi d’artificio, i sandali di crepuscolo e le pantofole dell’ultimo bagliore del tramonto. In un fulgore accecante li diede al sole. Poi disse: «Ora andrò al pianeta verde e blu e ne diverrò la madre.»

«Prendi tutto ciò che ti serve. Sappi che la tua mancanza qui sarà enormemente sentita anche se ai nostri occhi sarai visibile ogni giorno. Sappi anche che qui sarai sempre la benvenuta – disse il sole – Addio, la nostra luce accecante potrà non esserti sempre propizia nelle tue nuove sembianze su quel piccolo pianeta.» E così, gli anelli, la cavigliere, i bracciali e le collane della stella furono disseminati tutto intorno al sole in una scia di stelle, fuochi d’artificio, polvere di crepuscolo e scintille sparsi nel cielo come una scia di latte versato. Ogni cosa fu sistemata in modo che lei potesse scorgerla dal pianeta verde e blu. Di modo che potesse  ricordare da dove era venuta.

Finalmente partì, prima a cavallo di una stella cadente che attraversò in un lampo il tempo e lo spazio. Poi in sella ad un unico raggio di luce nella dolcezza di una giornata al tramonto, ma con ancora tanta strada davanti. Aveva con sé una zappa, un mortaio  col pestello, un setaccio, una ciotola per l’acqua, una per cuocere, dei piatti di bambù e legno, una piccola ascia, una stuoia e una grande coperta. Alla fine saltò in groppa al primo sprazzo di luce diretto verso il pianeta verde e blu.

Nell’atterrare, capì perché quel pianeta le era sembrato così verde visto da tanto lontano nel cielo. Le foreste e le praterie erano così belle da gonfiarle il cuore e renderlo ancor più sensibile di quanto già non fosse. Guardò amorevolmente tutte le piante ed esse crebbero felici sotto il suo sguardo, in un verde sempre più lussureggiante. C’erano arbusti qua, alberi là, e più lontano boccioli dei tanti colori della luce che lei aveva portato con sé da così lontano: giallo, arancione, blu, porpora, bianco, rosa, limone, lime, azzurro, acquamarina, e in mezzo un’infinità di toni e di sfumature.

«Figli, voglio avere dei figli. Tanti, tanti figli – disse lei – Voglio dei figli da amare. Figli che scorazzino nell’erba. Figli che cantino, figli che ridano e voci che riecheggino sul fianco delle montagne. Figli da chiamare e da coccolare, e figli che si prendano cura di me quando sarò vecchia e malandata. Figli che siano la mia forza quando la vita mi avrà reso debole e fragile. E figli che mi mettano a dormire quando sarà il momento.»

Il suo desiderio fu realizzato e i figli arrivarono. Arrivarono e come! Tutto intorno a lei. Di qua e di là. Davanti e dietro. C’erano maschi alti, agili e forti tanto da riuscire a star fermi su un piede solo per ore. E c’erano maschi gentili e delicati che trasmettevano calore e compassione anche a quelli che non correvano veloci o non avevano una grande resistenza. C’erano femmine alte e forti come i fratelli, che riuscivano a correre e a saltare tutto il giorno come gazzelle, senza stancarsi neanche un po’. E c’erano femmine dolci e delicate come fiori, amorevoli come madri, gentili come fratelli e sensibili come padri. Tutti si radunavano attorno alla figlia del sole e la chiamavano Madre.

E così la stella, figlia del sole, che aveva regnato nel cielo con brillantezza impareggiabile, divenne la Madre di Tutti i Figli nati sul pianeta verde e blu. Li amava tutti e si prendeva cura di ognuno di loro. I figli alti e quelli bassi, i figli grassi e quelli magri, quelli scuri, chiari e dalla pelle dorata. Si prendeva cura di tutti, giorno e notte. C’erano figli che camminavano e non correvano mai, e figli che correvano e non camminavano mai. C’erano figli è mio che volevano tutto per loro. Figli niente che dicevano sempre e soltanto una parola: niente. C’erano figli torno subito che andavano e venivano in un lampo. Figli io no che non ammettevano mai di avere sbagliato. Figli non lo so, figli ha cominciato lui, figli me l’ha chiesto lei che erano pavidi e sgarbati, e tanti, tanti altri. Lei se ne prendeva cura e procurava loro la pioggia e l’abbondanza. Poiché conosceva le vie del cielo, donava loro anche il sole e la luce. E quando per le piante era il momento del riposo, faceva entrare l’Autunno e l’Inverno affinché le mettessero a dormire.

Si prendeva cura dei figli quando erano svegli e quando dormivano. Era sempre la prima ad alzarsi. Con la sua grossa scopa spazzava e puliva, e di buon mattino attaccava a lavorare con la zappa per coltivare il cibo che serviva ai suoi figli. Per quando essi fossero voraci, lei aveva sempre cibo a sufficienza per sfamarli, anche dopo tutto quel correre, cantare, nascondersi e le tante cose che ai bambini piace fare tutto il giorno.

La Madre di Tutti i Figli era molto energica, ma gli anni le pesavano tanto sulle spalle. E i figli della terra erano cambiati. Una volta lei si lamentò col sole: «Sono tutti così cambiati. Non significo più niente per loro. Mi sembra addirittura che neanche mi vedano.»  Il sole rispose: «Ricordati, sono sempre i tuoi figli. Non hanno chiesto loro di venire al mondo. Devi darti da fare. Troverai tesori dove meno te lo aspetti e quando meno te lo aspetti.» E così lei si diede da fare, prodigandosi per i suoi figli, che avevano cominciato a litigare. Non si aiutavano a vicenda, né facevano niente da soli, ma passavano tutto il tempo ad urlare e a reclamare la sua presenza e la sua attenzione. «Oh, io ho fame – oh, io ho sete – oh, io voglio questo, io voglio quello – portami là, stringimi forte. Tu sei la Madre, ci hai messo al mondo. Devi prenderti cura di noi.»

E la Madre di Tutti i Figli curava le ferite e nutriva le bocche affamate, bagnava le gole assetate e li accudiva fino a farne uomini e donne. Essi se ne andavano via verso luoghi lontani, facendo ritorno solo ogni tanto e talvolta mai. Nel frattempo erano diventati così abietti e spietati da uccidersi a vicenda.

La tristezza cominciò a stringere il cuore della Madre. Mentre prima era stata alta e fiera, ora era ricurva sotto il peso del dolore e della vergogna che i suoi figli accumulavano su di lei incolpandola di tutto. Non avevano mai una sola parola gentile per lei, e la tristezza divorava a brandelli il suo cuore già sanguinante.

E fu così che nel vento  che ululava e sradicava gli alberi, lei cantava per tirarsi su il morale mentre lavorava. Cantava nella brezza fresca che baciava il giorno all’aurora, e che scuoteva con delicatezza gli uccelli assonnati invitandoli ad intonare i loro cori mattutini. Cantava nella pioggia martellante che scrosciava violenta e sollevava la terra, trascinandola verso il mare. Cantava nella pioggerella silenziosa che cadeva come piuma in cima alle grandi montagne del mondo. E quando faceva freddo, cantava nella pioggia che si trasformava in neve e in quella che veniva giù a chicchi di grandine violenta. E mentre cantava scrutava il cielo anche nella piena luce del giorno, quasi vi fosse qualcosa che avrebbe potuto aiutarla. Poi, riabbassando lo sguardo sul suo lavoro, cantava ancora. Talvolta, quando andava a raccogliere la legna per il fuoco nel bosco o nelle pianure alberate, cantava la storia delle foreste, alcune delle quali erano state abbattute dai suoi figli girovaghi, che tagliavano gli alberi e sradicavano tronchi che avevano impiegato anni a crescere, lasciando la terra devastata e morente.

La Madre di Tutti i Figli sapeva che essi non si curavano della terra. Scavavano buche in cerca di metalli preziosi e lasciavano le ferite aperte e sanguinanti. Mentre errava per la terra, era questo il canto che cantava. Lo cantava in piccole strofe, talvolta ad alta voce, talvolta più silenziosamente:

Voi mi dissodate e mi rivoltate

per mietere le vostre brame
fino a lasciarmi nuda, ferita.
Siccità rovinose mi devastano,
piogge torrenziali mi laveranno le carni
così che chiunque passa mi deride e sputa su di me.
E io sopporto tutto.
Io, la Madre nata per dare,
nulla tengo per me.
Io nutro il mondo e i miei figli stanno a guardare
mentre per mano loro giaccio avvelenata.

 

Poiché le orecchie dei suoi figli non erano in armonia con la musica della terra, essi non badavano a quel  che lei cantava. Solo qualche volta, quando cantava al tramonto, un peso gravava sui cuori dei figli un tempo gentili e sensibili.

Via via che essi si sparpagliavano lontano, ognuno di loro reclamava più spazio. Si alzavano ogni mattina e litigavano per gli alberi. Litigavano per le pietre luccicanti. Recintavano pezzi di terra. «Questo albero è mio», si sentiva laggiù. «No, è mio», più  in là. «E’ mio. E’ mio», dappertutto.

Essi prendevano gli uccelli nei boschi e li mettevano dentro gabbie in cui non c’era spazio per volare. Andavano in cerca di pesci nel mare per metterli in vasche senza spazio per nuotare. Uccidevano gli animali solo per svago e ne collezionavano le teste e le pelli. Talvolta intrappolavano le bestie selvatiche e le sbattevano dentro prigioni. Tagliavano gli alberi delle foreste e le lasciavano spoglie. E  così, quando la terra si stancò e la Madre di Tutti i Figli diventò vecchia, si ammalò e morì, non furono neppure in grado di preoccuparsi.

Con la morte venne esaudito il suo secondo desiderio: che il suo cadavere fosse vestito di nero e che le fosse permesso di continuare a servire i suoi figli come meglio poteva. E così lavorò anche da morta, ogni giorno e ogni notte, con un abito nero e una cappa nera. Lavorava anche più duramente, ora che non aveva neppure bisogno di dormire. I figli continuavano a non badarci. Continuavano a chiedere, «Dammi, dammi, dammi», e lei continuava a prodigarsi senza sosta. Poiché ormai non era che uno spettro, non diceva mai nulla. I suoi canti giungevano di notte e sul primo farsi del giorno solo perché il vento li trovava nelle  valli e sulle colline dove ancora ne indugiavano gli echi.

La Madre accudiva in special modo una figlia che era stata tra i primi a nascere e che non riusciva a parlare. Aveva occhi stupendi oltre ogni dire e i suoi capelli intrecciati di perline dietro la schiena erano neri e forti. Via via che le crescevano, cresceva anche il suo cuore. E via via che cresceva il suo cuore, le braccia e le gambe diventavano forti. E fu così che divenne una splendida, giovane donna.

Un giorno, mentre era intenta alle sua faccende, a un tratto la giovane si fermò e guardò in alto, verso la Madre. Poi per la prima volta parlò: «Lascia che ti aiuti, Madre. Ti prego, siediti e riposati». La sua voce era gentile e dopo che ebbe parlato, cadde un silenzio assordante. La gentilezza aveva abbandonato il pianeta da lungo tempo, e ora tutto sembrò fermarsi, anche se solo per un momento. La Madre fece un pesante sospiro. «Oh, grazie, figlia mia», disse.

Bastò quell’unico gesto di gentilezza che la Madre si rasserenò. Di colpo cadde a terra e si trasformò in un cumulo di polvere. Il suo lavoro era compiuto. Un forte vento arrivò a spazzare la sua polvere e la soffiò in cielo dando vita alla luna così come noi oggi la vediamo. E allora si realizzò il suo terzo desiderio – che una luce tenue potesse splendere su di lei e consentirle ogni mese di vedere i suoi figli e il pianeta verde e blu.

E in quello stesso giorno di ogni mese, la Luna guarda i suoi figli che litigano e discutono. Scorge le figlie, guidate dalla giovane donna e indaffarate a curare e guarire, a servire e salvare, così come faceva lei prima. Ma i figli delle figlie della Luna continuano a litigare, a scontrarsi, a lamentarsi. E la Luna, vedendo tutto ciò, non può fare a meno di nascondere la sua faccia e piangere, prima di riavere la forza di tornare a guardare, mostrando solo metà del suo volto. Poi, poco alla volta si gira, finché la sua faccia piena risplende con amore.

In quelle notti qualcuno coglie quell’amore e lo fa circolare. Le figlie della Luna intonano allora il canto di chi si prodiga per gli altri, esprimendo ancora un desiderio: che tutti i figli possano imparare di nuovo ad amare la Madre.